– Libano, l’ingegneria finanziaria del governatore-zar e
– Avvoltoi su Beirut: i ricchi comprano le case distrutte dei poveri
Banque du Liban. Riad Salameh e Rafik Hariri artefici di politiche neoliberiste che hanno impoverito e indebitato il paese dei cedri che ora vive una grave crisi economica e finanziaria
Usando il tono del buon padre di famiglia, Riad Salameh, governatore da 27 anni della Bcl, qualche giorno fa, in una intervista, è apparso insolitamente comunicativo e disposto a contribuire alle ricette che dovranno essere adottate per rimettere in piedi un paese sommerso dal debito pubblico (175% del Pil) e dal debito estero. Salameh si è detto anche pronto ad aprire i libri della Bcl e ad appoggiare una verifica accurata dei conti delle banche private che da sempre protegge come fossero sue figlie.
È impressionante la considerazione di cui lo zar della Bcl ancora gode a Beirut e all’estero, nonostante il disastro finanziario del paese dei cedri e il tonfo della lira libanese. Una benevolenza non accordata ad altri protagonisti della crisi. Nella visita del 6 agosto a Beirut, dopo l’esplosione al porto della capitale, Emmanuel Macron – stando alle rivelazioni sulle intenzioni del presidente francese fatte da Le Figaro e costate una sonora strigliata pubblica all’inviato del giornale, George Malbrunot – avrebbe esortato Mohammad Raad, alto dirigente di Hezbollah e volto politico del movimento sciita, a dimostrare di «essere libanese» e di contribuire con decisioni coraggiose a salvare il paese.
Macron, sempre secondo Malbrunot, nella sua veste di santo patrono del Libano, potrebbe sanzionare i dirigenti libanesi che non faranno la loro parte. Anche Salameh? Difficile crederlo. D’altronde le manifestazioni popolari in corso dallo scorso ottobre – contro la classe politica, il malgoverno e la corruzione – se da un lato hanno preso di mira anche le banche dall’altro hanno solo sfiorato il governatore della Bcl. Anzi qualcuno ha persino applaudito quando Salameh, presentando stime delle perdite ampiamente diverse da quelle del governo, ha silurato il piano presentato dal premier dimissionario di Hassan Diab – approvato dall’Fmi – per ottenere un finanziamento vitale da 10 miliardi di dollari.
Nei mesi scorsi Salameh ha ridimensionato, e non di poco, le perdite accumulate sia dalla Bcl che dalle banche private. «Dallo scoppio della crisi, il governatore ha raramente parlato ai libanesi – ci dice Hicham Safieddine, docente al King’s College di Londra e autore di Banking the State sul ruolo avuto dalla Bcl nella storia del Libano e nel disastro economico e finanziario di questi ultimi anni -, Salameh non ha preso misure decisive e non ha ordinato controlli sui capitali o sostenuto verifiche della condizione e delle scelte delle banche private (detengono il 50% del debito pubblico, ndr) che pure stanno giocando un ruolo negativo nella crisi». La gestione di Salameh ha oscurato l’immagine positiva che la Banca centrale si era guadagnata negli anni della guerra civile (1975-90) rimanendo resiliente di fronte al conflitto e relativamente immune alla manipolazione settaria.
Hezbollah è preso di mira da una parte dei libanesi. In questi anni di fatto ha partecipato al malgoverno rimanendo in silenzio di fronte alla corruzione dei suoi partner nell’esecutivo. Ma non è responsabile del dissesto finanziario del paese che affonda le sue radici nelle politiche svolte dal premier sunnita Rafik Hariri, assassinato a Beirut nel 2005.
Divenuto premier al termine della guerra civile, Hariri ha abbracciato senza riserve le politiche neoliberiste e ha abbinato alle privatizzazioni la costruzione massiccia di immobili nel centro di Beirut. Le sue politiche hanno prosciugato le casse pubbliche e arricchito i privati oltre ad innescare gentrificazione e rentierizzazione, un’impennata dei prezzi degli immobili e un aggravamento delle disuguaglianze sociali.
E i suoi progetti edilizi e infrastrutturali sono stati fondati in gran parte sul debito pubblico e non sulla tassazione della fascia più ricca della popolazione. Perciò dopo anni hanno trasformato il Libano in debitore cronico. E le banche libanesi sono state in grado di garantirsi un livello elevato di profitti grazie anche all’ingegneria finanziaria della Bcl sotto Riad Salameh.
Hariri reclutò nel 1993 il 42enne Riad Salameh che, divenuto governatore, fece della Banca centrale un pilastro a sostegno delle politiche del premier. «Il neoliberismo di Hariri – afferma Safieddine – le leggi fiscali e le privatizzazioni, sono tra le cause della catastrofe finanziaria attuale».
Tuttavia, aggiunge, «anche i signori del conflitto settario e l’oligarchia bancaria sono parte del problema. Hanno beneficiato delle scelte di Hariri, facendo poi ben poco per annullare la sua pesante eredità».
Salameh intanto va avanti, certo che continuerà a regnare indisturbato. Da qualche giorno afferma che le banche dovranno ristrutturare e ricapitalizzare e se non si conformeranno alle sue decisioni saranno rilevate dalla banca centrale. Pochi però credono che userà il bastone e non la carota, come ha fatto sino ad oggi, con i banchieri che lo adorano: il governatore è un simbolo del laissez-faire.
E il presunto esecutivo del risanamento in via di formazione si adeguerà presto, negando la giustizia sociale, un sistema fiscale progressivo, l’assistenza sanitaria pubblica e gratuita e l’istruzione accessibile a tutti che sognano i libanesi.
Libano. A un mese dall’esplosione che ha devastato la capitale libanese, tra le macerie dei quartieri più colpiti si aggira, contanti alla mano, chi spera in una nuova gentrificazione. Mentre aumentano i casi di ansia e depressione
4 agosto-4 settembre. Un mese esatto dallo scoppio che ha bloccato gli orologi alle 18.08, ora in cui è saltato il capannone 12 al porto di Beirut. Dolo, caso, cattivo stoccaggio, sarà il tribunale di Fadi Sewan che stabilirà – se stabilirà, quando stabilirà – la verità.
Una cosa è certa: quello non era il posto per le 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, giacenti al porto da sei anni, alla base dell’esplosione che ha causato circa 200 morti, 7mila feriti, 300mila sfollati e danni incalcolabili alla città.
IN QUESTO MESE è successo di tutto. Le dimissioni di Diab che accusa il sistema corrotto (lo stesso che lo aveva messo al potere) di avergli impedito di riformare il paese. Lunedì Mustafa Adib diventa premier e ora si aspetta la formazione del nuovo governo. Protagonismo assoluto Macron, già due volte in Libano dallo scoppio. 253 milioni di euro in aiuti stanziati. Rinnovo missione Unifil al confine con Israele. Discrepanze Stati Uniti-Francia sul futuro di Hezbollah. Proteste, scontri con la polizia. Impennata del Covid-19 e due lockdown. Stato di emergenza e poteri speciali all’esercito. E la lista continuerebbe.
Il popolo libanese che vive da un anno la crisi economica più forte della sua storia era sceso in piazza il 17 ottobre scorso contro la corruzione e l’inefficienza della classe politica al potere da decenni e si trova ora ad affrontare le conseguenze dell’esplosione.
PER GENTRIFICAZIONE, termine introdotto da Ruth Glass nel 1964, si intende il fenomeno per cui aree popolari subiscono un cambiamento socio-culturale in seguito all’acquisto di immobili da parte di privati che li trasformano in posti alla moda. I prezzi generali aumentano e il resto dei residenti è costretto ad abbandonare il centro urbano.
Beirut certo non si è sottratta negli anni a questa logica. Quando dopo la guerra civile (1975-90) fu fondata Solidere (1994) – compagnia pubblica/privata estremamente contestata, sotto l’allora premier Rafiq Hariri – il centro di Beirut fu totalmente ricostruito su un modello che guardava al Golfo. Il suq, vera agorà della vita sociale ed economica libanese – luogo in cui avviene l’esercizio della sfera pubblica, per dirla con Habermas – fu sostituito da negozi per ricchi, dall’alta moda ai caffè di lusso, diventando di fatto luogo inaccessibile al popolo.
L’ESERCIZIO DEL POTERE passa anche e soprattutto attraverso la gestione dello spazio, come spiega l’illuminato urbanista Mumford quando parla della relazione organica tra le persone e lo spazio in cui vivono. Il neo-liberismo opera questa lacerazione tra uomo e luogo in modo sistematico.
L’ong Save Beirut Heritage si batte da anni affinché gli edifici storici non vengano demoliti per lasciare spazio a nuove costruzioni, con l’assenso complice e criminale delle varie municipalità. L’Unesco conta 640 edifici danneggiati di cui una sessantina a rischio crollo o crollati nell’esplosione, che ha solo amplificato e accelerato il rischio di un incremento della gentrificazione già in atto.
A pochi giorni dall’esplosione, eccoli girare per le macerie di Gemmayze, Mar Mikhail, Geitawe, quartieri a carattere storico di Beirut, i «benefattori» che, contanti in mano – ovviamente meno del valore reale – non vedono l’ora di “aiutare” chi ha perso tutto. Appaiono allora sulle rovine striscioni con la scritta «Beirut non è in vendita», ma poi più che il dolore può il digiuno e chissà per quanto ancora il popolo libanese potrà resistere.
IL ROMANTICISMO sulla resilienza dei libanesi non attacca più. Migliaia i casi di disordini post traumatici come ansia, depressione, attacchi di panico, rabbia, frustrazione. L’ong Embrace parla di «senso generale di disperazione e mancanza di aspettative». I giovani che hanno potuto se ne sono andati e quelli rimasti cercano un modo per scappare.
L’esplosione ha solo accelerato questo processo: già prima la disoccupazione giovanile era altissima. Ora però ha spazzato via in un colpo solo anche le speranze di cambiamento che la thaura, la rivolta, aveva riacceso.
Costretti negli anni al mercimonio politico per avere ciò che spetterebbe loro di diritto, disillusi, traumatizzati, i libanesi cercano oggi una strada tra le macerie.
Pasquale Porciello