Matteo Faccioni è stato volontario per un anno nel villaggio di Pomabamba nelle ande Peruviane , con lui cerchiamo di organizzare un viaggio che permetta di conoscere a fondo la realtà che di chi vive un villaggio andino. Mentre stiamo raccogliendo materiale per arricchire di contenuti il viaggio Matteo ha scoperto questa testimonianza fatta da Walter Bonatti che 50 anni fa è passato da lì.
Un frammento della testimonianza dell’alpinista Walter Bonatti, passato a poche ore da Pomabamba ancora 50 anni. In tutti questi anni poco è cambiato…)
Ok! Stavo leggendo un libro di Walter Bonatti, l’alpinista, e ho scoperto che è passato da un villaggio ad un’ora da Pomabamba. Se serve questa una sua piccola riflessione sui campesinos:
“Ma nel ricordo vedo anche quella terra severa su cui l’indio, da sempre, forgia il proprio carattere e da cui riesce pazientemente, ostinatamente a trarre di che sopravvivere. Tra gli scoscendimenti rocciosi del Maranon, non v’è lembo che non sia stato spianato o per lo meno solcato dal primitivo aratro: due legni incrociati tirati dai buoi, quando ci sono, oppure a spalla. Tra le rupi serpeggiano piccoli ripidissimi sentieri da incubo. Nell’asprezza di questa natura incollata alle nubi è straordinario scorgere le gialle terrazze del grano maturo che si susseguono come gradini su, su verso il cielo. Un cielo contro il quale si vede sovente qualcuno che avanza lungo un profilo da capogiro, chino sotto un carico che eguaglia il suo stesso peso. Solitario e infaticabile, l’indio delle montagne cammina e cammina, e non fa che lavorare. Coltiva il frumento, il migliore che abbia mai visto, dalle spighe gonfie e generose; ma è il granoturco il suo orgoglio: dalla sua fermentazione ottiene la chicha, una bevanda alcolica e saporosa come la birra. Molti dei tuberi che coltiva sono commestibili anche crudi, cuoce comunque il cibo in vasi di terracotta e spesso usa come recipienti le grandi zucche svuotate. Gli indumenti sono tessuti dalle donne con il vello di pecora o di llama, monocolori nei poncho degli uomini, allegri e variopinti nelle polleras delle donne, le lunghe sottane fatte a più strati sovrapposti. Nei villaggi più piccoli non esiste la tienda, i lnegozio, ma alcune bandierine appese alle case indicano con il loro colore ciò che lì si può trovare: le bandierine rosse sono l’emblema della chicha, quelle verdi della coca, le bianche invece del pane. I bambini, dalle guance paffute e rosse, costituiscono l’unica nota ridente fra questa gente che pare nata soltanto per soffrire ed essere triste, accompagnata per una vita intera da una povertà endemica, disperata a volte, eppure silenziosa. In queste valli, troppa miseria ha fossilizzato il ritmo dell’esistenza, che tuttavia con il suo dare e togliere può portare temporanea allegria o dolore, far cantare o piangere; un pianto interno è però il loro, e per questo il più penoso. Una volta all’anno, e per un solo giorno, tutto si riassume in un’unica espressione gioiosa: la festa. É una parola fatata da queste parti, qualcosa di sacro e pagano al tempo stesso, in cui si ritrovano il culto incaico del Dio del Sole e il cristianesimo dei conquistadores, un miscuglio insomma di religione e di magia. Ogni villaggio ha la sua chiesa, ossia un qualcosa di molto simile a un capanno di terra spoglio di ogni cosa e senza finestre; anche l’altare è di terra e vi domina un grande, rude crocifisso. La sede del missionario è sempre lontana, inoltre sono troppi per lui i villaggi da visitare, e sono anche molto distanti tra loro. Il pastore arriva qui a cavallo una volta all’anno, e quando ciò accade è un giorno di festa, un giorno durante il quale il prete riassume tutte le funzioni di dodici mesi: battesimi, cresime, comunioni, matrimoni e prediche. E fuori dalla chiesa, come espressione di felicità, c’è la banda. I suonatori scarseggiano, non sono mai più di cinque o sei, e il più delle volte si spostano da un villaggio all’altro per rallegrare l’atmosfera con un motivo di poche note, ma che ripetono all’infinito negli squilli degli ottoni e nei colpi di bombo, il tamburo. É musica festosa e tuttavia esprime tutta la profonda malinconia che nell’indio è congenita. Le valli riecheggiano di questi suoni, che sembrano uscire dalla natura stessa quasi perdendo il senso della loro provenienza. La chicha e la huarapa inebriano questi indios che passano le ore fra la chiesa e i casolari. Tutti sfoggiano quanto hanno di meglio. Le donne vestono polleras di una policromia smagliante, i corpetti attillati premono sui seni voluminosi. Giovani e vecchie portano la tradizionale bombetta, le meno povere si ornano di collane di vetro colorato e di specchietti. Dopo i vespri, quand’è scesa la notte, tutti cantano e ballano ininterrottamente fino all’alba, e la banda continua a suonare il suo motivo, un pò più incerta, un pò più stonata. Ma resiste fino al nascere del nuovo giorno per salutare il missionario che se ne andrà di lì a poco con il suo cavallo verso un altro abitato, magari accompagnato dagli stessi suonatori.” (W. Bonatti)
Nonostante scritto nel ’67 molte cose sono ancora le stesse, non so se potrebbe tornare utile
Ciao, Matteo