L’autogestione e le relazioni basate sulla solidarietà nelle molte comunità indigene presenti in Ecuador. L’organizzazione sociale fa della “minga”, un’attività tradizionale segnata principalmente dal lavoro comunitario, la base dell’autogestione dei servizi. Il fine resta il raggiungimento del sumak kawsay (parola kichwa tradotta in spagnolo con “buen vivir”), ovvero la costruzione quotidiana di una società inclusiva, solidale e rispettosa dell’ecosistema. Una interessante rilettura sintetica di questa realtà, vista attraverso l’esperienza diretta di Riccardo Sacco, giovane impegnato nel servizio civile proprio in Ecuador e uscita nella sezione “Ecologia politica” di Effimera, che da tempo ha aperto una feconda discussione su “neo-operaismo e decrescita”
La cornice
L’Ecuador è un paese di piccole dimensioni e di enormi differenze tra i gruppi etnici che qui convivono: mestizos, indigeni, afroecuatoriani e montubios. Tuttavia, per rimanere in tema, ci soffermeremo solo sulla cultura e struttura sociale indigena.
La presenza indigena si concentra lungo la dorsale andina e nelle zone orientali dove vivono la maggior parte dei gruppi etnici nativi, con città come Otavalo e Cotacachi ad assoluta maggioranza indigena. Nella regione settentrionale dell’Imbabura, dove vivo, si trovano gli eredi delle etnie Caranqui (popolazione pre-incaica) e Inca.
Con l’obiettivo di:
“consolidar a los pueblos y nacionalidades indígenas del Ecuador, luchar por la tierra y territorios indígenas, luchar por una educación propia (intercultural bilingüe), luchar contra la opresión de las autoridades civiles y eclesiales, luchar por la identidad cultural de pueblos indígenas, contra el colonialismo y por la dignidad de pueblos y nacionalidades indígenas”[1],
le differenti nazionalità indigene ecuatoriane si federarono nel 1986 nella CONAIE (Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador) portando la loro istanza di “stato plurinazionale” nel dibattito costituzionale svoltosi tra il 2007 e 2008, istanza inserita dall’Assemblea Costituente nella Carta; tuttavia, denuncia la CONAIE, con pesanti modifiche rispetto all’idea originaria.
La popolazione indigena, da sempre, rappresenta la fascia più povera della società ecuatoriana, nonostante i miglioramenti delle condizioni di vita durante gli anni della presidenza Correa. Quest’ultimo, fautore di uno sviluppo economico che affonda le sue radici nel “socialismo del XXI secolo”, è un leader politico che suscita umori contrastanti: c’è chi lo vede come il creatore dell’Ecuador moderno e inclusivo, chi lo raffigura a capo di una banda di corrotti dedita alla persecuzione degli avversari politici. Fatto sta che, nella tornata elettorale di quest’anno, il candidato di Alianza PAIS – il partito di governo – Lenin Moreno, è uscito vincitore da un ballottaggio serratissimo con l’avversario, il presidente del Banco de Gauyaquil – in passato promotore della dollarizzazione del paese – Guillermo Lasso.
La minga: autogestione e solidarietà
Le comunità indigene hanno diversi punti in comune e condividono un concetto sottostante la loro organizzazione sociale. I primi sono: l’organismo politico decisionale (cabildo[2] e assemblea generale), il loro essere situate fuori dai centri urbani e la massiccia presenza di orti per l’autoconsumo e/o la piccola vendita (per le strade della città o lungo la panamericana). Il concetto che le accomuna è quello di minga, traducibile con “lavoro comunitario”, che è alla base della gestione dei servizi e non solo. Nelle comunità sono le persone che le abitano che, attraverso la minga, si “costruiscono” e autogestiscono i servizi di base; inoltre, la minga può anche diventare strumento di solidarietà.
Ne ho compreso l’importanza quando mi sono trovato ad ascoltare, nella sede dell’azienda fornitrice d’acqua, dal nome kichwa “Sumak Yaku”, la storia della minga grazie alla quale si costruirono i canali che portano l’acqua potabile alle case della comunità. I lavori per la costruzione dei canali durarono 58 giorni, a ogni giorno si diede un valore di dieci dollari. Perciò chi lavorò tutti i giorni si allacciò all’acqua gratuitamente, chi ne lavorò solo una parte dovette pagare la differenza. Chi, a oggi, ha un parente che aveva preso parte ai lavori paga con uno sconto del 25%, mentre chi non soddisfa questo requisito deve pagare la cifra per intero, ovvero 580 dollari.
Gli esempi di minga sono numerosissimi vista l’importanza che ha nella vita delle comunità. Per esempio, adesso che la stagione delle piogge è al suo picco massimo, le comunità alle pendici del vulcano Imbabura si trovano in minga per risistemare le fondamentali strade di sassi distrutte dalle piogge.
Dalle parole delle persone traspare come la minga sia uno dei momenti chiave della vita comunitaria; giornate di lavoro e incontro in cui ci si scambiano racconti e informazioni sulla vita della comunità e sulle sorti di amici e parenti vicini e lontani.
L’importanza della minga non si esaurisce nella sua accezione di lavoro collettivo di cura del comune, diventando inoltre strumento di solidarietà. Infatti per quanto riguarda i lavori strutturali delle case di famiglie che non hanno abbastanza risorse economiche, la comunità organizza mingas per sistemare danni e/o difetti strutturali.
Per le caratteristiche sopra evidenziate, credo che la minga sia uno degli strumenti fondamentali per il raggiungimento del sumak kawsay (parola kichwa tradotta in spagnolo con “buen vivir”), ovvero per una idea di società che sia inclusiva, solidale e rispettosa dell’ecosistema.
Ricollegandomi allo scritto di Emanuele Leonardi “Neo-operaismo e decrescita”, non sono sicuro se queste comunità siano “dentro e contro” oppure “fuori”, con lo sguardo rivolto semplicemente altrove, rispetto alla crescita economica e, oggi, alla crisi che sta investendo le aree urbane dell’Ecuador. Tuttavia, la mia sensazione è che qui in Ecuador gli indigeni abbiano buttato un occhio al modello economico-sociale dei centri urbani e l’abbiano rifiutato, rimanendo legati alla loro organizzazione sociale, alle loro pratiche agricole e cultura gastronomica. Non di rado, quando si parla con persone indigene, i temi dell’agricoltura, della salute e della salvaguardia del proprio territorio si confondono, diventando un’unica questione.
Diritti della natura: basi teoriche, potenzialità e limiti
Prima di addentrarsi nello specifico nel dibattito sui diritti della natura è bene sottolineare come la Costituzione del 2008, redatta dall’Assemblea Costituente radunata a Montecriti, sia stata frutto di un immenso lavoro collettivo al quale parteciparono più di mille delegazioni in rappresentanza di altrettante organizzazioni sociali. Inoltre, attraverso l’apertura di tavoli di lavoro itineranti nel paese, forum, workshop e grazie all’ausilio di piattaforme on-line, l’Assemblea fu in grado di interloquire con più di centomila persone. In questo clima di confronto movimenti, organizzazioni, ONG e i differenti corpi sociali della società ecuatoriana ebbero l’opportunità di portare nel discorso costituente le proprie istanze, influenzando il testo finale. Tra i tanti esempi possiamo citare il tema della sovranità alimentare, il riconoscimento della natura plurinazionale dello Stato (cui accennavamo sopra), il diritto all’acqua (pubblica e inalienabile) e i diritti della natura.
Un processo di dialogo, limatura e compromesso durato più di otto mesi che portò nel settembre del 2008 all’approvazione, attraverso un referendum, di una delle Costituzioni più progressiste dell’America Latina.
“Più di cinquecento anni di colonialismo, neocolonialismo, genocidio e dominazione non sono riusciti a cancellare dalle culture dei popoli andini il culto della Terra e l’ideale della convivenza armoniosa del sumak kawsay, che oggi – rimosse le barriere che lo opprimevano – torna in superficie come messaggio al mondo e specialmente alla razza umana a rischio di collasso ed estinzione. È proprio dalla cultura e dalla filosofia andina che emerge la giustificazione teorica all’inserimento in Costituzione dei diritti della natura e del sumak kawsay che, insieme, tracciano il cammino per un tipo differente di organizzazione economico-sociale opposta al modello di sviluppo neoliberista. L’art. 71 della Costituzione ecuatoriana dispone quanto segue:
“la natura o Pacha Mama, il luogo in cui si riproduce e concretizza la vita, ha diritto al rispetto integrale della sua esistenza e al mantenimento e rigenerazione dei suoi cicli vitali, struttura, funzioni e processi evolutivi. Tutte le persone, comunità, popoli o nazionalità potranno richiedere all’autorità pubblica il compimento dei diritti della natura”[4].
L’art. 71 si trova in relazione, tra gli altri, con l’art. 66 in cui è inserito il diritto a vivere in un ambiente sano e non contaminato, con l’art. 14 che pone nell’interesse pubblico il recupero delle aree naturali degradate e con l’art. 57 che impone la conservazione della biodiversità nelle comunità indigene.
Nella visione del mondo dei popoli andini, “l’essere umano o runa andino, prima di essere un soggetto razionale e produttivo è un’entità naturale facente parte della Natura, un elemento che si trova in relazione, per mezzo di innumerevoli nessi vitali, con l’insieme dei fenomeni naturali, siano questi di tipo astronomico, meteorologico, geologico, zoologico e botanico”[5]. Dunque, secondo il principio della relacionalidad, l’essere umano esiste in quanto nodo di una rete che tiene assieme il mondo animato, quello inanimato e quello spirituale. Per questo motivo l’allontanamento dalla comunità è considerato la pena massima da applicare solo quando la comunità ha esaurito tutti i mezzi per il ritorno a una pacifica convivenza.
Gli altri tre principi cardine su cui si basa la filosofia andina sono: corrispondenza, complementarietà e reciprocità.
In breve, secondo il principio della corrispondenza, i distinti aspetti delle diverse realtà e dei diversi mondi trovano una corrispondenza armoniosa; ciò che succede in un mondo avviene anche negli altri – questa idea è sintetizzata nella frase “tal en lo grande, tal en lo pequeño”[6]. Il principio della complementarietà “enfatizza la inclusione degli opposti complementari in una entità completa e unica: cielo e terra, sole e luna, chiaro e scuro (…)”[7]. Nella filosofia andina gli opposti non si escludono in quanto, insieme, contribuiscono alla formazione di un’entità più grande. Infine, la reciprocità regola l’economia basata sul baratto presente nelle comunità facendo sì che gli scambi siano equi.
Il modello di vita a cui tende la filosofia andina è quello del sumak kawsay, il quale, per realizzarsi, ha bisogno di un’organizzazione sociale, di un’organizzazione politica e di un’economia. L’organizzazione sociale indigena è la comunità, mentre quella politica è rappresentata dalla figura del presidente o cabildo che lavora sotto le raccomandazioni dell’assemblea generale. Il modello economico sul quale si dovrebbe fondare il “buen vivir” prende vita dalla “concezione che tutto è parte della Pacha Mama in forma complementare: l’essere umano, la terra, il bosco, l’acqua, l’aria, gli animali, le pietre, le montagne, i minerali, etc.
“Secondo questo principio, tutto quello che esiste è vivo, pertanto, nulla si può utilizzare per fini mercantili, ma bensì unicamente per soddisfare le necessità vitali, al fine di, in questo modo, evitare l’alterazione della natura”.
All’interno di questo inquadramento teorico non c’è spazio alcuno ai temi cari al neoliberismo: accumulazione di capitale, sfruttamento delle risorse ambientali e crescita economica.
Il sumak kawsay non è solo il modello al quale tende la visione indigena, ma anche l’obiettivo che si è posto la Costituzione del 2008; infatti, nel preambolo si legge che il fine è quello di costruire “una nuova forma di convivenza cittadina, in diversità e armonia con la natura, per raggiungere il buen vivir, il sumak kawsay”[10].
Esistono ovviamente anche i limiti di questa concezione. Alcuni li evidenzia José Sánchez-Parga[11] nel mettere in luce come nell’art. 74 della Costituzione si legga che “le persone, comunità, popoli e nazionalità avranno il diritto a beneficiare dell’ambiente e delle ricchezze naturali che gli permettano (di raggiungere) il buen vivir”[12]. La domanda che si pone l’autore è: con l’alibi del buen vivir, fin dove si spingeranno privati e amministrazioni locali nello sfruttare le risorse naturali?
La risposta sembra essere: parecchio in là. Infatti non è un caso che proprio in Ecuador le popolazioni indigene si trovino in prima linea nella lotta contro l’estrattivismo che, dalla Valle de Intag alla Cordillera del Condor, minaccia il loro ambiente di vita. La critica di Sánchez-Parga si spinge oltre quando afferma che rendere la natura soggetto di diritto rompe l’intrinseca relazione tra natura e essere umano, avallando l’idea capitalista di natura come cosa altra rispetto alla condizione umana e alla storia dei popoli.
Raúl Llasag Fernández nel suo contributo al testo Los Derechos de la naturaleza y la naturaleza de sus derechos pone in luce un’ulteriore contraddizione nella Carta ecuatoriana quando si affronta il tema dei settori strategici[13], nel quale rientrano l’energia, le risorse naturali non rinnovabili, la raffinazione degli idrocarburi, la biodiversità, etc.
Per quanto riguarda questi settori strategici la Costituzione non proibisce lo sfruttamento per fini commerciali dando allo Stato il compito di amministrare, regolare e controllare; lasciando libero il governo di delegare lo sfruttamento di questi settori a imprese pubbliche o private.
In conclusione, credo che, nonostante criticità e contraddizioni, il grande lascito dell’esperienza del governo di Rafael Correa sia quello di aver individuato, nel sumak kawsay, un’alternativa valida al modello neoliberista, attualmente non percorribile nella sua interezza, però ben presente come idea di società giusta sia ecologicamente sia socialmente.