dI Michela Giovannini , tratto da unimondo.org
Qui puoi leggere il programma di viaggio in Chiapas che incontra le esperienze qui descritte.
Esiste una via al turismo che non sia di impatto catastrofico sull’ambiente e sulle popolazioni locali?
Su Unimondo se ne è già parlato in varie occasioni, ma è utile continuare a proporre casi e analizzare le conseguenze di progetti di sviluppo turistico da parte di imprese e governi che poco si preoccupano delle conseguenze delle loro azioni, quando l’unica cosa che davvero importa è il profitto che ne possono trarre. Ne nasce spesso un turismo predatorio, a volte camuffato da ecoturismo o turismo di avventura.
Il Chiapas, nel sud-est messicano, rappresenta in tal senso un caso esemplare: un territorio incredibile, ricchissimo di risorse naturali, caratterizzato da una selva che è riserva unica di acqua e biodiversità per tutto il Messico. A questo si accompagna la ricchezza dei siti archeologici maya e delle città coloniali che attirano un turismo crescente: il Chiapas costituisce sempre più una sorta di prolungamento della “ruta maya” caraibica tanto pubblicizzata dagli operatori turistici di mezzo mondo.
Da anni sono allo studio vari progetti di ulteriore sviluppo turistico che si basano essenzialmente sulla creazione di infrastrutture. Tra queste la più importante è l’autostrada Palenque-San Cristóbal, che andrebbe ad unire due delle mete turistiche più ambite: l’impressionante sito archeologico maya immerso nella selva e la città coloniale che attrae ogni anno migliaia di turisti. Lo scorso luglio più di 15.000 persone marciarono in vari comuni dello stato del Chiapas per contrastare questo progetto e denunciare la speculazione e le conseguenze che questo avrebbe per le comunità locali. L’impatto ambientale e sociale sarebbe devastante: la costruzione dell’autostrada, in buona parte su viadotti trattandosi di una regione montagnosa, implicherebbe l’espropriazione di vasti territori ed una massiccia perdita di suolo da destinare alle coltivazioni. Trattandosi di comunità la cui economia si basa prevalentemente sull’agricoltura di sussistenza risulta evidente l’impatto distruttivo che tale progetto avrebbe sul diritto al territorio ed alla sovranità alimentare. Un altro timore è che l’autostrada favorisca l’ingresso di imprese estrattive, quali multinazionali minerarie o idroelettriche. A tutto ciò va aggiunta la mancata consultazione delle popolazioni indigene presenti sul territorio secondo il principio del libero, previo ed informato consenso, come prevede la convenzione n. 169 dell’ILO, ratificata dal Messico e pertanto legalmente vincolante.
Collegato strettamente a questo progetto se ne aggiunge un altro, ufficialmente denominato “Centro Integralmente Planeado de Palenque (CIP), Cascadas de Agua Azul” , in cantiere ormai da un decennio. Tale progetto prevede la costruzione di un complesso turistico su larga scala comprensivo di hotel di lusso, centri commerciali e campi da golf. Tutto ciò in una zona di selva in gran parte incontaminata, dalla biodiversità ricchissima, rifugio di specie animali e vegetali.
Durante un recente viaggio in Chiapas ho potuto visitare una comunità in resistenza dove si cerca di promuovere una forma di turismo alternativo, non basato esclusivamente sul profitto e sulla mercificazione della natura, ma sul rispetto per la “madre tierra”. L’idea è quella che il turista sia un collaboratore e non un semplice cliente, in una visione comunitaria di scambio e compartecipazione. La comunità è costituita da basi d’appoggio zapatiste che occuparono questa zona una ventina di anni fa, in cerca di terre da coltivare per poter vivere ed alimentarsi. Poche famiglie sono rimaste da allora, provate dalle continue azioni controinsurgenti, che spesso nel corso degli anni hanno preso la forma di minacce e veri e propri interventi armati. Questi sono stati perpetrati da parte di paramilitari e comunità priiste, sostenitrici cioè del partito di governo che è rimasto ininterrottamente per 70anni al potere fino al 2000, per ritornarci poi nelle ultime elezioni del 2012.
Per arrivare alla comunità ci incamminiamo in fila nella selva su di un sentiero di terra dove, quando le piogge battono forte, si sprofonda nel fango fino al ginocchio. Ora invece sta piovendo poco, contrariamente a quanto prevederebbe la stagione. Attorno a noi c’è solo selva, selva che significa verde intrecciato della vegetazione fittissima, liane penzolanti e versi di insetti e animali, solo pochi così temerari da mostrarsi a noi animali umani. Il sentiero ci conduce in meno di un’ora alla comunità: poche abitazioni di legno per famiglie numerose, tanti bambini e animali da cortile. Le donne e le bambine sono scalze, i maschi hanno stivali di gomma, in molti casi sfondati, coi talloni in vista. Un bambino minuscolo con la pancia gonfia ci osserva incuriosito e non sorride mai, chissà cosa pensa. Sui muri delle case, più che essenziali, scritte che inneggiano al movimento zapatista.
Una ragazzina vicino a noi continua a tossire di una tosse profonda, assillante, un’altra ha la gamba rovinata da qualcosa che assomiglia ad una dermatite. Per fortuna la selva è generosa di frutta: banane, agrumi, canna da zucchero, cacao. Nelle radure strappate alla vegetazione altissima crescono le coltivazioni di mais e fagioli, gli alimenti base della dieta indigena. Un bambino di forse 7-8 anni che ci accompagna insieme ad altri nel sentiero in mezzo alla selva si ferma a raccogliere un limone, poi lo sbuccia perfettamente con il machete sotto il mio sguardo sbalordito e insieme divertito. Qui non si nasce con un peluche da coccolare e non si cresce con in mano la playstation o il tablet. Qui si impara a maneggiare il machete fin da piccoli, ci si lava nel fiume, dove a volte si riesce anche a giocare, e non ci sono bagni né latrine, solo selva e acque mosse che quando piove molto assumono il colore del caffè. E’ il caro prezzo della dignità, del non cedere alle moine del governo che regala mattoni in cambio di voti (si vedano a proposito i progetti “piso firme” o “pie de casa”). Una grande lezione che queste persone ci insegnano, mentre ci salutano guardandoci negli occhi e stringendoci forte le mani, le loro mani forti e dignitose di chi lavora la terra ed ha imparato a non abbassare mai la testa.
Mentre scendiamo ci accorgiamo di essere ripresi da un tizio con una videocamera, che ci sta aspettando da chissà quante ore al di là della strada. Per noi è solo una piccola intimidazione in confronto a quelle che devono subire i componenti delle comunità locali in resistenza, ma la racconta lunga sugli interessi e sul clima di conflitto che questa zona meravigliosa ed incontaminata scatena.
Michela Giovannini