Dopo un viaggio in Guatemala, nel 1967, lo scrittore uruguaiano scrisse un testo durissimo e profetico sull’ingerenza americana e i conflitti che insanguinavano il piccolo paese centroamericano. Solo oggi edito in Spagna, è una parabola sul destino difficile del continente
DI EDUARDO GALEANO
Ecco un’anteprima di “Guatemala. Saggio generale di violenza politica in America Latina”, di Eduardo Galeano, un inedito dello scrittore, datato 1967, ora pubblicato in Spagna dall’editore Siglo XXI. Dopo una visita in Guatemala, tra l’aprile e il maggio 1967, lo scrittore (scomparso nel 2015) scrisse questa analisi politica del continente, diretta antecedente al suo libro più importante, “Le vene aperte dell’America Latina”. Il libro indaga le implicazioni politiche per l’intero continente della situazione guatemalteca, argomento affrontato anche da Mario Vargas Llosa, “Tiempos recios”.
BREVE STORIA DELLE VITTIME E DEI RIBELLI
“A quel tempo non avevano il fuoco, e Tohil lo creò e lo diede loro, e così i popoli si riscaldavano, e provavano grande allegria per il calore che ricevevano. Il fuoco stava emanando luce e crepitando, quando arrivò un gran temporale e la grandine, che lo spensero”.
Popol Vuh (detto “La Bibbia dei Maya”, il Popol Vuh è la fonte religiosa antica più importante dell’America Centrale, N.d.T.)
“I miei piloti sono biondi e hanno gli occhi azzurri”, disse una volta l’ex presidente del Guatemala, Miguel Ydígoras Fuentes, “ma ciò non significa che siano statunitensi”. La coincidenza nell’aspetto fisico, in questo paese di indios, non era affatto un caso. L’intervento degli Stati Uniti nelle vicende interne del Guatemala spazia, da molto tempo, in tutti i campi. La presenza imperialista nel paese si rivela esemplare, per la crudezza con cui si manifesta: è un modello schematico dello sfruttamento che subiscono le tribolate regioni a sud del Rio Grande. Il Guatemala è il volto, malcelato da una maschera, di tutta l’America latina; la faccia che porta stampate addosso la sofferenza e la speranza di questa nostra terra, depredata delle sue ricchezze e del diritto a scegliersi un destino. In Guatemala gli Stati Uniti fanno e disfano a piacere presidenti e dittatori; Wall Street controlla l’economia del paese, per mezzo degli investimenti, degli scambi commerciali e dei crediti; l’esercito riceve armi, addestramento e informazioni dagli ufficiali statunitensi che spesso partecipano di persona a operazioni militari interne al Guatemala; la stampa e la televisione dipendono in buona parte dalla pubblicità delle aziende straniere; funzionari e tecnici dell’Ambasciata degli Stati Uniti o di organismi “internazionali” esercitano un governo parallelo, che diventa l’unico governo quando si tratta di prendere decisioni; la Coca-Cola ha sostituito i succhi di frutta naturali e il dio dei protestanti o dei mormoni fa concorrenza alle divinità superstiti dei Maya, nascoste dietro gli altari cattolici.
La dominazione e lo sfruttamento del Guatemala come se fosse proprietà privata non è certo una novità. Ha assunto caratteristiche peculiari a partire dal 1954, perché la criminale invasione che l’imperialismo lanciò all’epoca ha marchiato a fuoco la storia attuale del paese. La caduta di Árbenz fu un anello decisivo in una lunga catena di aggressioni, che non erano iniziate né terminarono con quell’avvenimento. La situazione odierna non si spiegherebbe se non tenessimo in debito conto il processo rivoluzionario del decennio che si schiuse nel 1954, e il suo tragico finale: da quei venti provengono queste tempeste. Le stesse forze che bombardarono Città del Guatemala, Puerto Barrios e Puerto San José alle quattro di pomeriggio del 18 giugno 1954, oggi sono al potere, oggi hanno assunto il vero potere; li scherma il paravento prestato loro da un regime civile che, ipocrita qual è, si dichiara erede della rivoluzione repressa. Da quello sfacelo in poi, il popolo destituito imparò poco a poco a rialzare la testa in altri modi: la rivoluzione perduta contiene anche la chiave di lettura del consolidamento e dello sviluppo delle guerrillas di oggi.
UNA COSCIENZA NUOVA
La colonia voleva tramutarsi in patria: fino al 1944, il paese era stato testimone e vittima, ma non protagonista, della propria storia. Da lungo tempo, il destino del Guatemala veniva giocato a testa o croce con monete straniere, a Wall Street o a Washington o nel quartier generale del Pentagono.
Capitanata da studenti universitari e da giovani ufficiali nazionalisti dell’esercito, la rivoluzione scoppiò e segnò la fine del lungo regno del dittatore Ubico, un vecchio generale con simpatie germanofile, che tuttavia non gli impedirono di mettersi al servizio degli interessi delle grandi compagnie statunitensi; nemmeno il suo sbandierato culto dell’onestà rappresentò un ostacolo agli eccellenti rapporti che mantenne con l’oligarchia locale.
Il paesucolo di indios analfabeti e morti di fame si era rizzato in piedi: Arévalo e Árbenz, eletti uno dopo l’altro dal voto del popolo, avrebbero avuto il compito di guidare la difficile impresa dell’affermazione nazionale. La definisco nazionale, ma in un senso che oltrepassava le frontiere del Guatemala: da questi governi nacquero gli sforzi migliori, i più intensi, per ricostruire, su nuove fondamenta, la perduta unità centroamericana. L’America centrale, così come l’America latina tutta, lacerate dalle frontiere che l’imperialismo ha consolidato o inventato per dominarle meglio, non si aspettano certo che sia l’imperialismo stesso a rimettere insieme i cocci della frantumata patria grande: tra i progetti originari di Arévalo e l’attuale Sieca (Segreteria di Integrazione Centroamericana) intercorre la stessa distanza che separa l’Alalc (Associazione Latinoamericana del Libero Commercio) dai sogni di Artigas o di Bolívar. La cosiddetta “integrazione centroamericana”, nel modo in cui si sta realizzando, non provoca altro che la disgregazione delle deboli industrie nazionali presenti in quell’area, a beneficio dell’integrazione delle aziende straniere e dei loro interessi: le operazioni si pianificano su scala regionale; una volta espansi i mercati ed eliminate le tasse e i controlli, il saccheggio imperialista assume nuove forme, più efficaci. Vent’anni fa, i tentativi della rivoluzione guatemalteca di riunire in gruppo, sia dal punto di vista politico che da quello economico, i paesi dell’America centrale, miravano a superare la balcanizzazione di tutta l’area geografica, a vantaggio dell’area in sè; si cercava di dare una risposta collettiva alla collettiva sfida al sottosviluppo; di sconfiggere la frammentazione per riuscire a sconfiggere la miseria e l’arretratezza. L’Organizzazione degli Stati Centroamericani (Odeca) nacque nel 1951 da quelle intenzioni, ma finì per trasformarsi in un organismo nemico del governo del Guatemala: lungi dal rompere l’isolamento della rivoluzione popolare, lo accentuò. Fu una delle catapulte che gli Stati Uniti utilizzarono per bombardare e annichilare, dopo una lunga e tremenda campagna di assedio, il regime di Árbenz. E, in buona sostanza, la Sieca di oggi è degna erede dell’Odeca di allora.
In America centrale il riflesso della rivoluzione guatemalteca si sarebbe potuto cristallizzare solo attraverso altre rivoluzioni, che non avvennero. Dai minuscoli paesi vicini, governati da fantocci della United Fruit o da dittatori a vita, il Guatemala non ricevette altro che ostilità e indifferenza. Tuttavia la rivoluzione scoppiò e si sviluppò all’interno dei confini nazionali, e alla fine fu repressa da truppe addestrate dalla Cia in Honduras e Nicaragua. Le conquiste della rivoluzione sono ancora un vivo ricordo nella memoria della gente. Fu avviato un vigoroso piano educativo; i lavoratori delle campagne e delle città si organizzarono in sindacati, protetti dal Codice del Lavoro. La United Fruit Company, uno Stato dentro lo Stato, padrona della terra, della rete ferroviaria e del porto, dispensata dal pagare le tasse e non soggetta ad alcun controllo, perse l’onnipotenza nelle sue vaste proprietà. Le nuove leggi sul lavoro e sulla previdenza sociale resero possibile lo sviluppo del mercato interno, poiché il potere d’acquisto e il livello di vita dei lavoratori erano migliorati. Grazie alla costruzione di strade e alla creazione del porto di San José, nel Pacifico, si spezzò il monopolio esercitato dalla United Fruit sui mezzi di trasporto e i rapporti commerciali. Vennero avviati ambiziosi progetti di sviluppo economico, promossi da investimenti a capitale nazionale, come il programma di elettrificazione del paese. “In Guatemala non abbiamo ricevuto prestiti stranieri, perché sappiamo perfettamente che se ti mettono dollari nella mano destra, con la sinistra consegni loro il diritto a esercitare un potere sovrano”, aveva detto Arévalo; un Arévalo allora ben diverso da colui che alla fine avrebbe consigliato l’intervento armato contro la Rivoluzione Cubana.
Il Guatemala iniziava a dimostrare, agli occhi di tutta l’America latina, che un paese può rompere il cerchio del sottosviluppo, uscire dalla miseria, senza doversi prostrare come un mendicante sull’uscio dell’Impero. Ci fu una nuova Costituzione, che per la prima volta non era un retorico tranello redatto da dottoroni a dispetto del loro popolo, e ci fu, soprattutto, una nuova consapevolezza: gli ostacoli offrivano al Guatemala l’evidenza della sua forza appena nata. I discendenti dei Maya stavano riconquistando il senso della dignità, che giaceva gravemente ferito dai tempi in cui erano stati annientati dalla conquista spagnola. Il 17 giugno 1952 il governo di Árbenz approva la riforma agraria. Quando Árbenz si dimette, nel discorso di addio rivela che il suo governo ha dovuto schivare trentadue colpi di Stato fomentati dalla United Fruit. La riforma agraria si spingeva troppo oltre: era un esempio pericoloso per l’America latina, quindi intollerabile. L’ambasciata degli Stati Uniti decise che il governo di Árbenz puzzava di comunismo e rappresentava un pericolo per la sicurezza dell’emisfero australe. Non era la prima volta che un regime nazionalista borghese, con vocazione all’indipendenza, veniva così etichettato. Eppure né Arévalo né Árbenz si erano prefissi la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio: la riforma agraria fissava come obiettivo essenziale “lo sviluppo dell’economia capitalistico-contadina e dell’economia capitalistica agraria in generale”. Tendevano allo stesso fine ulteriori provvedimenti attuati da entrambi i governi. Questo tipo di “disordine” non sarebbe stato l’ultimo, come dimostrò il sangue versato in altri paesi negli anni successivi. La buona salute degli investimenti statunitensi a sud del Rio Grande e la politica del potere degli USA nella propria area naturale di influenza, poggiano sulle sacre strutture economico-sociali che sanciscono che in America latina ogni minuto muoia di malattia o di fame un bambino o più. Chiunque tocchi queste strutture, compie un sacrilegio: lo scandalo esplode.
IL CRIMINE
Prese il via una schiacciante campagna internazionale contro il Guatemala. “La peste arriva da lì”, si diceva: “La Cortina di ferro sta calando sul Guatemala”. Nei primi mesi del 1954, oltre centomila famiglie avevano tratto beneficio dalla riforma agraria, “che concerneva soltanto le terre improduttive” e pagava un indennizzo, in titoli di Stato, ai proprietari espropriati. La United Fruit coltivava soltanto l’8% delle terre su cui si estendeva, che toccavano entrambi gli oceani: i suoi immensi territori incolti iniziarono a essere distribuiti tra i contadini poveri, che si accingevano a coltivarli. Il presidente della United Fruit, in un colloquio riservato, ammonì: “D’ora in poi, non si tratterà più del popolo del Guatemala contro la United Fruit; questa circostanza si trasformerà nella questione del comunismo contro il diritto alla proprietà, alla vita e alla sicurezza nell’Emisfero Occidentale”. La Oea si riunì per impartire la sua benedizione all’invasione che la Cia stava preparando contro il Guatemala. Tra i democrati indignati che votarono a favore della condanna al regime di Árbenz durante la Conferenza di Caracas, spiccavano le figure dei più sanguinari dittatori della storia del continente, allora al potere; garanzie viventi della stabilità dell’America latina: Batista, Somoza, Trujillo, Pérez Jiménez, Rojas Pinilla, Odría: ancora adesso, se sommassimo tutta la loro corruzione, se ci proponessimo di misurarla, faremmo saltare qualsiasi calcolatore. “Non avevamo dubbi né speranze”, avrebbe scritto, qualche tempo dopo, il cancelliere guatemalteco Toriello. E fu l’ultima volta in cui, ormai alla vigilia dell’agonia, il Guatemala potè fare la voce grossa per esprimere la politica estera indipendente che era nata con la rivoluzione, e che con lei morì: a Chapultepec, a San Francisco, a Rio de Janeiro, a Bogotà, e in molte altre città europee e americane era riecheggiata con forza e coraggio sufficienti a fare in modo che gli Stati Uniti considerassero inammissibile l’insolenza di quel minuscolo paese. L’Oea concesse il nulla osta e il militare di turno, Castillo Armas, diplomatosi a Fort Leavenworth, scagliò contro il Guatemala le sue truppe addestrate e pagate dagli Stati Uniti. L’invasione, fiancheggiata dal bombardamento degli F-47 pilotati da “volontari” statunitensi, fu un trionfo. Messo alle corde dal nemico, tradito dai capi militari nei quali mantenne riposta la sua fiducia fino all’ultimo, Árbenz non volle, o forse non potè, lottare. Durante quella tragica notte del 1954, il popolo ascoltò per radio il testo registrato della sua rinuncia, non l’atteso proclama della resistenza. Più avanti, con altri leader di movimenti simili in America latina, succederà la stessa cosa: caudillos populisti o presidenti con intenzioni riformiste di carattere nazionalista borghese arriveranno alla fine dei loro giorni mantenendosi al potere e abbandonandolo senza spargimenti di sangue; spaventati, chissà, dalle contraddizioni che loro stessi avevano scatenato, e timorosi di essere sopraffatti dalle forze popolari a cui avevano impresso movimento, né Perón, né Bosch, né Goulart consegnarono armi ai lavoratori affinché difendessero i loro regimi, esposti alla sfida di ripetuti golpes militari.
Poco tempo dopo l’invasione del Guatemala, Washington ammise ufficialmente che il meccanismo del crimine era stato assemblato, oliato e messo in funzione da mani statunitensi. Fu un bel lavoretto della Cia: uno dei suoi capi, il generale Walter Bedell Smith, un anno dopo passò a ingrossare le fila del consiglio direttivo della United Fruit, occupando una delle poltrone su cui si era già seduto Allen Dulles, a quel tempo numero uno dei servizi segreti USA. Suo fratello, John Foster Dulles, era stato il più impaziente tra i cancellieri che parteciparono alla riunione della Oea. La spiegazione c’è: sulla scrivania del suo studio legale erano state scritte le bozze dei contratti che la United Fruit firmò con il governo del Guatemala nel 1930 e nel 1936.
LE RICOMPENSE
Castillo Armas portò a termine la sua missione. Restituì alla United Fruit e ad altri latifondisti le terre incolte espropriate e consegnò un sottosuolo di 4 600 000 ettari, quasi la metà del paese, al cártel internazionale del petrolio. La Normativa del Petrolio fu redatta in inglese e arrivò al Parlamento in inglese: venne tradotta in spagnolo su richiesta di un deputato a cui rimaneva ancora un brandello di senso della decenza. La rivoluzione si era rifiutata di cedere il petrolio, nonostante le pressioni subite nei dieci anni in cui aveva governato. “Per chi lo tenete in serbo, quel petrolio?”. “Per il Guatemala”, aveva risposto Arévalo a un emissario della Standard Oil. Attualmente il cártel mantiene di scorta, senza sfruttarli, i giacimenti in cui è stata rilevata la presenza di petrolio; una politica che mette in atto anche in altri paesi latinoamericani.
Castillo Armas governò a ferro e fuoco. Chiuse i quotidiani dell’opposizione, che avevano operato in libertà ai tempi di Árbenz, e spedì in galera, alla fossa comune o in esilio i militanti politici democratici e i dirigenti sindacali e studenteschi. Alla fine, lui stesso venne assassinato. Eisenhower pianse la sua morte: “È una grande perdita per il suo paese e per tutto il mondo libero”, disse. Dopo nuove elezioni annullate e una giunta militare dal governo effimero, occupò la presidenza il generale Ydígoras Fuentes. Prima dell’invasione di Castillo Armas, la Cia aveva invitato proprio Ydígoras a capeggiare la spedizione. Lui stesso, ora, va raccontando che rifiutò l’offerta: intervistato dalla giornalista Georgie Anne Geyer a San Salvador, Ydígoras dice che, appena vinte le elezioni, fu abbordato da quattro uomini della Cia che minacciarono rappresaglie se non avesse saldato il debito da tre milioni di dollari che Castillo Armas aveva contratto per finanziare la sua invasione dalla parvenza gloriosa.
Ydígoras ratificò con la sua firma un incostituzionale e imbarazzante accordo sulle garanzie offerte agli investimenti stranieri già in essere e a quelli venturi, che servì da modello, in un secondo momento, ad altri governi latinoamericani con idee non meno dubbie sulla dignità nazionale. Testò, per giunta, la sua personale riforma agraria, dotata di caratteristiche talmente peculiari che ne furono beneficiati solo i grandi latifondisti, in base ai dati emersi da un recente dossier ufficiale. Fu sempre Ydígoras a mettere a disposizione suolo guatemalteco per le esercitazioni delle forze militari che andarono all’assalto delle spiagge cubane nell’aprile del 1961, in cambio di svariate promesse di aiuto economico al suo governo. Non per questo, però, i suoi intrallazzi con la Cia smisero di essere disastrosi: ancora si lamenta, amareggiato, del fatto che gli Stati Uniti non mantennero fede agli accordi e dice di avere ottenuto la quota di zucchero che gli era stata promessa solamente dopo che minacciò di boicottare le riunioni dell’Alleanza per il Progresso.
Il testo di Eduardo Galeano, Guatemala. Ensayo general de la violencia política en América Latina, edito da SIGLO XXI de España Editores S.A., è tradotto da Monica Rita Bedana.
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