Paradiso di realtà. Isola –ponte, perla malgascia di popoli e di tradizione!”
ANTANANARIVO
In un ordine disordinato di popoli e genti
come ritornati su piroghe da secoli e secoli
sono qui , città dalle cento colline, città dei cento guerrieri
dove tutti sorridono a calendari
senza giorni scritti in rosso,
nel furto di scadenze .
Antananarivo, mercato dell’assurdo,
groviglio di genio riciclato
rinato su nostri oggetti amati d’infanzia .
Antananarivo di povertà assurda, letame e aromi
Mischiati in scoli putridi
dove giocano i bimbi in giorni infiniti.
Le tue giovani attendono le ore di noia
da riempire come i loro ventri vuoti
accanto a chi le avvinghia in abbracci sfrenati .
Ma Antananarivo è anche luogo dove l’uomo cede
di fronte alla donna di fatica.
Capitale di conquista, Amtananarivo!
Impressiona questo mosaico di negritude in angoli fuori dal mondo e si piange davvero davanti a monumenti viventi di miseria.Senza età. Antananarivo è sole in scrosci improvvisi di pioggia tra Equatore e tropico del Capricorno.
E’ Africa? Sì! E’ Asia? Sì.Insieme. Ma un’identità di etnie fiere della tribolazione quotidiana ma dove pure avanza inesorabile l’universo della globalizzazione. I bugigattoli di capannine e miseri buchi di merci scontate, quasi ripetitive , mostrano, in file alterne, strumenti di quella tecnologia ormai indispensabile che sostituisce occhi e orecchi , dimenticando l’emozione.
La crisi che l’informazione esalta ogni giorno sui canoni di leggi ingiuste e ferree, dettate dall’economia, qui non sembra esistere. E’ calma piatta. Una zattera, questo mondo dei malgasci.Una zattera che però galleggia.
Che si trasforma poeticamente nelle serate di luna che sopraggiungono in un baleno.
E’ come una falce sottile in cielo, striscia d’oro e lestelle immense, costellazioni dal vivo, con l’imponente schermo d’uno scuro azzurro trapuntato dalla Via Lattea e dalla Croce del Sud.
Cani in lontanaza latrano solitari com’è sola la gente nel buoio in strade di notte già fonda in una periferia di metropoli.
Il riposo già notturno ad Antananarivo e nel Madagascar è come eslusiva presenza di extraterrestri di ombre, tutte visibili nell ‘atmosfera sempre incerta.
Verso AKAMASOA
Il miracolo di padre Pedro
Un sogno? Uno scherzo di fata morgana strappata al deserto, è Akamasoa.
Si arriva per le strade dalla terra rossa e attraverso l’asfalto raro e sconnesso di quest’isola dai biotipi unici, essenziali in legge di creazione .L’evoluzione sembra bussare alla porta. E’ contrasto al malgascio paziente che sorride della sua genesi giovane di due soli millenni.
E nella città di Akamasoa, il padre gesuita, figlio della stessa terra di papa Francesco e testimone-seguace dell’abbé Pierre degli stracci e partigiano della resistenza francese, ha fondato la sua “città della gioia”. E’ il miracolo di un villaggio sorto dal lavoro di immondizie e rifiuti nel nome del riciclaggio e di difesa dell’habitat.
Bimbi a frotte e adulti camminano dentro a quest’oasi che sa di miracolo e passano parte del giorno in vita più umana per annunciare al mondo che l’oceano è fatto di gocce d’acqua , all’ennesima potenza. E’ il miracolo di padre Pedro che vigila sui suoi figli e che comunica la rivoluzione della vera Carità.
ANTSIRABE
Gratis e desueto uno spettacolo
d’altri mondi e pianeti lontani anni- luce
sono le stelle, sempre le stelle.
Sotto la volta della Via Lattea
mi regalo Kant e ritrovo il pensare.
Come sospeso marziano della coscienza
su intermittenze celesti
ritrovare l’Essenza
adesso diventa un po’ più possibile.
Il mattino a Antisrabe è una passeggiata spesa tra la terra rossa e le colture di riso a terrazzi, con i soliti sorrrisi di bimbi vestiti solo di sole e povertà , sotto l’azzurro.
Una folla di proseliti seduti in ascolto di parabole e letture ascoltano i pastori di religione.
Anfiteatro umano di comunità di Lutero in un raduno oceanico da ogni villaggio. Dio c’è davvero ed è anche qui .
Mi adeguo al tempo lento della preghiera e mi mescolo all’anima malgascia del popolo delle tredici etnie .
La miseria è palpabile sui piedi nudi incalliti e resistenti dei bimbi che chiedono, sempre e guardano, guardano…oltre le gocce già versate in questo oceano tutto da riempire. E verso Betafo si innalza la nube di fumo di carbonare dove i mattoni si fanno ancora, come una vita fa.
Ragazzi già vecchi che impastano, vecchi che caricano i mattoni già asciutti al sole.
E ritorna un’eco , l’arte di Fellini, il regista di Romagna:”…mio nono fava i matoni, mio papà fava i matoni , io fo i matoni ma la casa mia dov’è?”.
Una sera, tra giovani amici volontari, si diventa tutti un po’ più giovani e giova per “ricaricare le batterie interiori”.
Verso il villaggio forse tra i più celebri e conosciuti tra gli etnografi ed etnologi dell’etnia Zafimaniry : in un tragitto a saliscendi, a volta anche a tratti, difficoltosi, si giunge alla meta. Senza dopo aver visto le schiene tese e nude al sole di improvvisati boscaioli impegnati a colpire le radici di alberi fin dalle radici.
E’ tutto come un unicum, questo villaggio
dopo foreste disboscate: un cammino
ora tra scale di creta e di pietra e ora oltre le salite.
Il piccolo grande mondo
dei Zafimaniry è Ifasina
tra porte d’arte di palissandro rubato
e poi scolpito con arte
tra la miseria più miseria.
Ifasina fa stringere il cuore con madri
e bimbi dal ventre gonfio e che chiedono
con il roteare di occhi imploranti .
Qui tutto è racchiuso fin dalla culla
d’ognuno, senza finte e ricatti.
E un groppo in gola che già soffoca
viene lasciato, quale pedaggio obbligato,
a un agglomerato uniforme da fine del mondo .
Davanti soltanto il fango e lo sterco.
Come ruscello, un filo di liquame sfiora
i loro piedi scuri e volano
corvi bianchi e neri anche sopra le teste di noi davà,
nel cielo ora grigio ora azzurro.
All’interno della capanna del capo
i quattro angoli per i posti
stabiliti da sempre, antenati defunti compresi
nel loro angolo del tabù.
Girotondo di montagne di questo Madagascar
dai vulcani paleolitici in ere abbozzate
su date ancora sempre incerte.
Brezza sottile all’aria aperta:
la semplicità è il dono dei poveri.
Avanti, sempre , attraverso strade-bivacco con gente ai margini. Accovacciati espongono i loro prodotti i malgasci e salutano. Sull’imbrunire, ancora mezzi svestiti ai primi colpi di un vento vespertino bizzoso, rimangono impassibili a difesa dei loro bugigattoli dal tetto di paglia. Si giunge alla città di Ambositra e qui si assiste a:
IL MIRACOLO DI SUOR LUIGINA
Tre, come la Trinità d’Amore-Famiglia:
tre figlie e sorelle mariste
Luigina l’apostola italiana,
Giselle figlia del suo nero Senegal
e la dolce giovane Lucia, nata da questa terra:
dalla loro povera cappella
di fede e silenzio confuso al Mistero,
sprigionano lampi di gioia più vera
edificando il domani .
E’ un miracolo quello di suor Luigina,
donna che accompagna fedele
in visite d’affetto a fratelli ammassati
come in lager riesumati.
AL CARCERE
Tra latrine e pentole in disordine sparso
ammassati e schierati dalle grida
di un guardiano d’altri tempi
guardano con occhi di riverenza.
Fissano i poveri doni
di sola commozione
ma è meglio dare che ricevere
qui, nell’inferno sempre troppo ristretto.
Senza età, senza dignità, a terra
nell’attendere il dovuto e sempre
senza mai il giusto interesse.
Più in là, oltre un’altra barriera, le donne
sempre troppo giovani
accolgono tra sorrisi di cosciente tristezza
chi si ricorda di loro.
Almeno una volta con la sola pretesa
di un bene fatto bene.
Le tre sorelle, queste tre suore sono una presenza indispensabile a Ambositra: per coraggio, tenacia e amore, tanto amore.
SOAVA DIA!
E’ l’ augurio malgascio,il “Soava Dia”, il buon viaggio di etnie che aspettano sempre lungo l’andare e nel percorreree villaggi su villaggi fuori dal mondo in estese radure del “taglia e brucia”.
Il tragitto verte tutto alla caccia fotografica del lemuri al parco di Rano Mafana.
Attesa di caccia sognata nel preparare accorgimenti e trucchi all’obiettivo nell’amore sospirato d’immagini e filmati. Lungo un sentiero, tra fiori e alberi, in un cammino di silenzio, rigorosamente in fila indiana: a vedere le proscimmie.
Saliscendi nella foresta pluviale di cronologia sempre incerta.
Appare dopo un’attesa quasi eterna, il lemure dorato, raro nei giorni d’inizio primavera e poi una pigra famiglia di lemuri dalla coda ad anelli.
A mezzogiorno, invece, puntuale, una mangusta indugia alla soste del Belvedere , forse addomesticata dal profumo del cibo cotto sulla fatapera e dall’ora canonica , sotto un sole che adesso scalda davvero.
Manakara
L’arrivo a Manakara in pullmino è tutto da raccontare , lungo strade impossibili, a tratti, con le schinche dell’abilità dell’autista ma pure con l’opportunità di godere un tramonto da sogno.E si intrecciano le visite ai giovani operatori del bene. Sono italiani, del nostro Nord e della pianura padana, che decidono di scommettere su alcuni dei loro anni , nel servizio di volontariato mettendo a frutto: entusiasmo, passione, competenza e tanta, tanta voglia di rendersi utili: nel campo medico-sanitario, forestale, alimentare e della comunicazione. Esempi da incorniciare tra file e file di sfortunati, malati e denutriti che non possono contare su nessun aiuto da parte dello Stato: perché qui non esiste lo Stato. O meglio, lo Stato c’è nella povertà più nera e che rifiuta perfino il riutilizzo degli stabili e degli edifici lasciati ,abbandonati al degrado dagli ex “padroni “ francesi, i colonizzatori-predoni del Madagascar , fino all’indipendenza politica del 1960. Il segno di non voler riadattare, resaturare e riutilizzare queste costruzioni, in rovina, come anche i ponti in acciaio, spesso già depredati dei pezzi migliori e lasciati arrugginire , è forse il voler affrancarsi del tutto da un passato che incute ancora paura e che pesa nel cuore. E allora i malgasci dai piedi nudi e dall’unica piccola kapoka di riso consumata una sola volta al giorno, sono sempre qui, a ricordare , purtroppo, una realtà, meglio la realtà. Quella che vivono di persona, ogni giorno.
Ma Manakara incanta. Specie sul far della sera, dopo un tramonto già gustato dai finestrini e magari immortalato dalla macchina fotografica.
A RIVA DELL’OCEANO INDIANO
L’oceano indiano (non più ora profilo-limite)
nelle schiume di fragore
rompe a intermittenza il sentire
di ogni profondo più profondo.
Di fronte all’infinito il mistero
del protoantenato nella terra
di queste etnie accoglienti
al sorgere dei nuovi giorni.
E le giovani, all’alba, già cantano
con i canestri sulla testa
e in mano mazzi di vaniglia.
Nell’aria solo profumi.
Sulla piroga, attraverso il canale dei francesi del Pangalanes , si ritorna pionieri di merci ( ma da acquistare ) verso le isole disseminate e ridenti.L’acqua è bassa, le pagaie accarezzano le onde a ritmo, al ritornello di dei capivoga. Esploratori del nuovo, attraverso una via d’acqua antica ma le chiatte e i grandi commerci sono solo un ricordo. Dalla riva guardano, salutano e pronte ad accogliere tante mani affusolate e occhi vivi di malgasci . Sarà adesso il loro commercio. Dopo cinquecento anni, sono loro a vendere collanine e creazioni povere ma tutte uniche, tra astucci di bastocini di vaniglia e montagne di ortaggi, i soliti ortaggi.
QUEL TRENO PER FIANARANTSOA
Groviglio di ruggine tra angoli innominabili,
come su carri bestiame dagli acri odori
è fermo e non sembra mai partire ,
quel treno dalla stazione di Manakara
Sul piazzale di terra battuta è babele di lingue
in questo lembo di Madagascar .
Pronti per muovere verso Fianarantsoa
( si sa già che sarà un giorno intero tra fermate insperate)
in un orario senza tempo
( qui si vive al momento! E si aspetta, sempre!) .
I vasah mescolati ai malgasci carichi di tutto
come in una grande famiglia
ma subito divisa da scompartimenti
in scelte anticipate di classi e posti prenotati.
Ma si divide tutti la povertà
almeno per un giorno di lenta,
laica , esaltante processione.
I carri stridono tra gole, risaie e rami
che penetrano da finestrini e porte
spalancati a attese di bimbi e adulti
in continui assalti e andirivieni,
a ogni fermata, a ogni villaggio.
Anche per chi non ha pagato il biglietto,
il treno diventa di tutti.
Miele attaccaticcio, profumo di croccante,
caschi di banane, galli e galline
dentro a ceste e sporte di rafia
e il cocco offerto con la manioca
diventano nuovi mercati , ogni volta.
Quel treno per Fianarantsoa è l’arca di Noè
in assalti di mamme e bimbi,
tanti bimbi a chiedere con i loro occhi
dal colore della speranza e della fiducia.
“Tutti compresi nel prezzo del biglietto”
questi incontri per via, sotto cunicoli di buio
in trepidante attesa di uno spicchio di luce,
appena oltre il buio, già lasciato alle spalle.
Quel treno per Fianarantsoa dalla rossa locomotiva:
ora in discesa e ora in salita
con spasmi metallici e rumore assordante …
su rotaie sghembe e tutto di ferraglia
rubata e scampata alla discarica.
A sera, sul già buio, sotto la luna e le stelle…
arriva…arriverà, quel treno per Fianarantsoa.
FIANARANTSOA
E’ davvero l’arca di Noè (se si eccettuano molte specie di animali) questo treno, zeppo oltre che di gente, in scompartimenti da anteguerra, con classi da quarto, quinto mondo e pulizia zero. Ma vale la pena di viaggiare in questo sogno sui binari malgasci. E’ sempre un evento, alla fine. Specialmente se si ha la fortuna di arivare…non importa dopo quante ore! Ricorda tanto i tram di Napoli pieni di scugnizzi che si attaccano alle maniglie, che salgono, che spingono, che assaltano il povero controllore e continuano ad assillare turisti e viaggiatori. Si tratta di scene comiche ma anche di scene drammatiche , con la messa in posa cinematografica di una realtà che più reale non si può.
Il Madagascar , in questi luoghi, è lontano dai pensieri, dalle impressioni finora registrate: alle fermate, si diventa tutti poliziotti, si erigono barriere umane tra i viaggiatori, tutti solidali. Si fa muro di fronte all’orda di assalitori che intrigano con cesti colmi di patate, manioca e croccanti e che chiedono .
Sono scene uniche ma che si ripetono in questo tragitto infinito di un treno da Far West su rotaie che quasi ballano, a volte : uno scorrere sempre allo stesso ritmo , sotto le cinquantaquattro gallerie.
Qualche fischio del bigliettaio che a stento richiude imposte provvisorie e via : Tan tan tanta, tan tan tanta. L’arrivo è al buio.
Ma non ci sono pericoli, a parte qualche sparuto gruppetto di persone, che guardano con curiosità.
Trovarsi d’improvviso a terra, giù da un treno d’altri tempi, dopo un viaggio infinito, strano e unico nel suo genere , sa dell’incredibile.
Rintronati ma sani e salvi , a pancia vuota e con il vago ricordo solo di assaggini e specialità acquistati in soste talora forzate, sotto la luna, grande, che proietta le ombre sul terreno…diventa adesso tutto più bello.
Dopo tutto, la minestra di verdure come la bistecca di zebù al pepe verde con le patate fritte possono attendere. Un confronto spietato con tutti coloro che qui mangiano una sola volta al giorno una kapoka di riso, accompagnata dall’acqua di riso,( tanto per cambiare) .
ALBA MALGASCIA
Già ha quasi disturbato insistente
l’ombra mai scesa del tutto
e un gallo canta da amico
in quest’alba malgascia.
Un’alba che annuncia meraviglie d’agenzia e di pubblicità.
Ma è brulicare di vita
la gente già in piedi e a piedi nudi.
Il volto di quasi Africa nella terra dei fieri Barà,
ladroni degli zebù,
i Barà poligami e meno padroni, adesso.
Anche qui è ritornata,
più sottile e ingannevole da un pezzo
prepotente, la legge dell’Occidente.
Lungo la strada, le mandrie , tante, indistinte mandrie di zebù quasi in silenti invasioni pacifiche, ordinate in tempo dii transumanze , al cenno di guardiani filiformi e giudiziosi.
La strada è proprio di tutti. Sullo sfondo l’altopiano dell’Horombè, immenso.Il paesaggio è un quadro cromatico e dagli angoli più difformi.Si gioca la meraviglia del creato, un creato quasi immobile .Ovunque o quasi ovunque, il “ravinala”, il simbolo di quest’isola : palma a chioma di raggera, ventaglio che respira, segna e accarezza il viaggio tra la gente e il sangue, colore di distese disseminate. Sono ampi fazzoletti tra sfumature di verde per l’occhio che li fissa da lontano. Ranohira e il suo parco dell’Isalo aspettano di dare vita a desideri di natura e lemuri , dal vivo, tra cascate e strapiombi ancora vergini nell’umido di gole e rocce.
Parco dell’Isalo:
L’Eden tra massi e gradini informi : l’Isalo, fino a sentire il penetrare di spicchi di sole tra una vegetazione che sembra sempre sbocciare . Dall’alto il falco sorveglia , con i suoi giri precisi in voli perfetti , il sentiero e gli alberi ; i lemuri, aggrappati ai tronchi , in famiglie, mostrano i loro larghi occhi cerchiati vivi e spauriti. Si lasciano catturare in riprese attese e vengono immortalati dagli obiettivi .
Sono però le cascate a ripassare i libri di Sandokan e del suo Emilio Salgari in avventure quasi rivissute. L’aria fresca, lo scorrere dell’acqua, l’umido verde del muschio che riveste i sassi e le pietre offrono le pause a una sosta di sogno. Un paradiso riemerso .
Camminare in lenta colonna
con il piede incerto tra sassi e ruscelli
e la testa all’insù
a indagare spazi blu
dove falchi e corvi piroettano.
E’ anche questo il Madagascar :
di cascate blu e zampilli
di pietre nere su nicchie
scavate da secoli.
Il passaggio e la fermata –lampo nel centro di Ranohira riportano la mente a un oggi di pietre ricercate e semipreziose. Qui saccheggiate. Il centro è novità in fieri di botteghe, nate dallo spasmodico guadagno di una ricchezza della natura pagata e caro prezzo. Solo per pochi vasah e asiatici arricchiti.
Il mercatino indigeno di povertà , invece , è altrove, delle solite cose, periferia di nulla, accanto a opere volute altrove e mai utilizzate.Ma le dolci patate abbrustolite hanno, adesso, un sapore migliore.
Solo le cavità della morte, i buchi- miniere come trecento anni fa, in albore d’europea civiltà industriale : il pianto del cuore è tutto per questi morti viventi che scendono in cunicoli provvisori , di continuo, senza le sicurezze e la protezione .
E la terra è un’ immensa gruviera: chissà quante grida inascoltate e quante vite rimaste sepolte, sotto questa sabbia mortale, di un lento, muto sparire.
Pesano sulla coscienza queste vite spezzate per interessi rubati sempre dal più forte e da chi non ha scrupoli. Coscienze dal pelo sullo stomaco mai sazio!
RANOHIRA
Qui parlano i morti in illusione
di una vita più vita ,
voci senza più la voce dalle viscere
della loro terra ora straniera.
Non so se questi spiriti dei malgasci
ritorneranno in sfida ai tabù.
E i vivi sono i nuovi morti ,
calati da buche e pozzi
a sventrare cumuli di terra rossa
come allora e da allora:
e fino a quando pietre dure e gemme
detteranno la fragile cornice
di un quadro incompiuto di civiltà .
Anche un gatto scheletrico dagli occhi gialli
attende forse l’ora del tramonto .
TULEAR
La vista in lontananza della “Tavola”, il trapezio immobile, montagna simbolo di questa città, tra altre alture, dà il benvenuto . Tulear nel mare vuole significare finalmente la vita nel suo brulicare di gente di questo sud che scalda il cuore ma che subito quasi lo soffoca. I resti vivi di un disastro, sulle superstiti murature. Il disastro del tornado è palpabile, ancora. Anche nel suo ventre centrale, che sa di marcio putrido, in strade polverose .
C’è uno spaccato di Napoli, perfino.Una pizza che non sfigura con quelle nate sul golfo di Sorrento e a Capri. Non per nulla il titolare è nato proprio a Capri.Chiudo gli occhi e gusto un piatto tutto italiano, del Sud .Dopo tutto, anche qui è Sud.
Dimentico, per un attimo, le povere casupole visitate in periferia di Tuelear con infinite nidiate di bimbi e donne curiosi alle porte, su stipiti che perfino ricalcano gli archi di della casa di Giulietta.
Dopo Verona, il mio sogno- realtà è ora un flash sulla costiera amalfitana, ad apprezzare questo miracolo di pizza del Madagascar ma dal segreto tutto italiano. E scende la notte a Tulear, con la Stella del Sud che non abbandona il sonno.
Il nuovo giorno è annuncio tutto di mare, un mare al largo, più lontano e verso una nuova meta.
Su carri instabili, tirati da zebù pigri e nervosi nella loro magrezza, si caricano bagagli su bagagli.E noi ci imbarchiamo, volenti o nolenti, su altre carrette sconnesse .Il porticciolo è inesistente: gli zebù incalzano, a due a due, con le loro corna arcuate a mezzaluna e dalle punte aguzze.
Si è come in carovane del Far West e procediamo in lenta colonna: ad un certo momento spuntano solo i musi degli zebù, il resto dei loro corpi è immerso nell’acqua. I mezzi di trasporto riportano ai nostri tempi dei campi, delle fienagioni estive, dei ritorni su carri quasi immobili …agli Anni Cinquanta – Sessanta .E l’avventura si paga in scomode posizioni ma tutte epiche ed esaltanti e si ripensa ai pussy pussy con l’uomo che a piedi scalzi traina l’uomo oppure ai maramba , carrettini miracolosi , carichi di tutto giù da salite . Il Madagascar, qui, è Asia!
Intanto si sale sul motoscafo sotto un cielo azzurrissimo .Il canale di Mozambico è meraviglia, che si apre a schiume candide, divise alla perfezione, sotto il motore dell’imbarcazione , lanciata in una corsa veloce. Si capisce sempre più come quest’isola rossasia l’ombelico tra i due continenti .E lungo il tragitto, tra sole , vento e acque increspate, si scorge, in un sogno ad occhi aperti , l’attacco di un Sandokan redivivo o compaiono i pescatori malesi che stanno per approdare. Fantasia storica o storia fantastica, un po’ tutte e due.
La meta, in prossimità, è Anakao.
ANAKAO
Sabbia e onde, schiuma e silenzio :
Anakao ancora oasi quasi inviolata di un mondo
per fortuna non del tutto scomparso.
Scoprire e vivere Anakao è un tuffo nel cuore,
di un cuore che si fa immenso.
E’ la perla dei senza nome
che si spingono al largo
su piroghe dal bilanciere
e barche a vela quadrata .
Sono tornati i reduci da Troia e magari Odisseo
è ancora in viaggio
a guidarli nel globo senza più orizzonte.
IL VILLAGGIO DEI PESCATORI
Anakaoè soprattutto villaggio di pescatori indomiti e docili com eil loro canale di Mozambico su risacche e flutti intermittenti e rari cumuli bianchi nel cielo azzurro, limpido ,quasi sempre.
Il vilaggio è accogliente dopo presentazioni di fantasia e ionsistenti di donne giovani ebimbi chge ti accompagnano e rincorrono sulla spiaggia cob collanibne di comnchiglie e semi, barche e barchette , pareo d’altri tempi e passati di moda.Anakao, villaggio dove il tempo è lo stesso, si è fermato e dove la linea bianchisssima, striscia di spiaggia di minutissimi frammenti di conchiglie e coralli , lascia il posto a piroghe e barche in secca .Al mattino, ogni mattino, è già l ‘ora di dividere il pescato, vario.
E le onde, intanto, sia accavallano verso la riva, con tonalità sempre più fragorose .
Il canale di Mozambico è come la prima rotaia di in binario dove sta immersa, poi verso l’Oceano Indiano, il Madagascar .
E più lontane, l’isola di Nosy Satrana, con il pesce appena pescato , cotto alla brace e mangiato al sole .Poi le balene e la barriera corallina: sia chiudendo gli occhi o anche guardando, i cinque sensi attestano che Dio c’è. Davvero.
In alto mare si nasconde
ancora la natura più natura.
La piroga nell’increspare delle onde
si spinge al punto dell’infinito.
E qui le balene, megattere attese,
vivono di libertà, ultimi giganti dei mari .
E’ tutto un guizzo di uno spettacolo
e di spruzzi all’alto, catturati
da scatti nervosi di obiettivi
in pose intabili come su altalene .
La piroga le affianca
e regna soltanto un silenzio
di una meditazione.
NOSY VE
Nosy Vè è una terra come di polvere di sale .La sua spiaggia dalle vecchie priroghe colorate di nerazzurro disegna un profilo di questo Madagascar , quasi lasciato a se stesso.
Anche qui la natura vede e provvede con ogni sorta di pesce e le giovani brune, chine sul bagnasciuga, a colpo sicuro , riempiono ceste e secchi di molluschi e frutti di mare.
IL MADAGASCAR, questo Madagascar va vissuto tra la sua gente, va condiviso con compagni che “mangiano lo stesso pane” e spartiscono insieme emozioni e ideali. In Madagascar noi europei e italiani ( lamentosi e incontentabili per natura ) dovremmo capire le diverse etnie, avvicinarci a un popolo che sta per diventare popolo e stato, ma uno stato, al momento, ancora incompiuto.
Non reggono qui gli schemi ristretti del nostro vivere , dovremmo vedere con gli occhi e con il cuore ben aperti .
Per fortuna ( ed è una consolazione) che il Madagascar è visitato e amato da gente generosa che paga di persona, in nome della fratellanza, solidarietà e di quel messaggio di un Vangelo che accomuna tutti.
Ancora le gocce preziose in un grande oceano, oltre la stessa geografia.
Mario Pavan, Vicenza.